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L’ultimo imperatore

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Pu Yi imperatore del Manchukuo – foto da Wikipedia

 

Questo libro del 1987 di Edward Behr, racconta in modo molto più particolareggiato rispetto al film di Bertolucci, la vita di Pu Yi, l’ultimo ad essere incoronato imperatore della Cina. Se già per un essere umano l’essere divinizzato, separato dal mondo e dalle persone che ci vivono, è motivo di grave squilibrio psicologico, l’esserlo all’età di tre anni come nel suo caso, è stato ben peggiore. Un simile ruolo, sostenuto dall’enorme numero di persone che da questo hanno tratto grandi vantaggi, lo ha reso al tempo stesso despota e schiavo. La sottomissione ad ogni sua necessità e capriccio da parte di tutti, gli ha impedito anche di camminare al di fuori delle sue stanze, di vestirsi, di lavarsi e di procurarsi da solo qualsiasi cosa, per non compiere azioni plebee. Queste sono state le più perfide premesse per renderlo inetto da ogni punto di vista. Ciò che forse in un passato lontanissimo era iniziato in forma molto più ridotta, come segno di rispetto per l’autorità di chi era a capo di un popolo, all’inizio del novecento aveva manifestato la degenerazione fino al ridicolo, all’assurdo. Se anche Pu Yi avesse avuto predisposizioni di carattere migliori, il trattamento a cui è stato sottoposto ne hanno fatto il personaggio ben poco nobile, che la presa di potere dei giapponesi e poi la prigionia nelle carceri comuniste cinesi, hanno fatto emergere. Forse con sincerità, forse per opportunismo, nei dieci anni di “rieducazione” comunque privilegiata sotto Mao Tse Tung, Pu Yi ha dimostrato di aver compreso molti dei propri errori e ha tentato di riparare almeno un poco. Fisicamente, però, è rimasto del tutto maldestro, essendogli mancata la possibilità di usare correttamente le proprie mani per svolgere persino le azioni più semplici.

Seguendo tutto il percorso della sua vita si vedono gli effetti dell’influsso degli altri esseri umani e delle circostanze su una persona che, privilegiata da un lato, è gravemente deprivata da un altro.