I miei articoli

Bosco del Sasseto di Torre Alfina (VT)

by 24 maggio 2023

Il Bosco del Sasseto

 

A Torre Alfina, seicento metri di altitudine nel comune di Acquapendente, il passato vulcanico del Lazio ha lasciato le sue tracce nell’antico Bosco del Sasseto. Man mano che ci si inoltra sotto le fronde, diventano sempre più numerosi e grandi i macigni da cui deriva il suo nome. Gli alberi si sono dovuti installare negli scarsi spazi liberi lasciati dalle pietre che, come i fusti legnosi, si sono in buona parte rivestite di muschio perché è a nord che si rivolge il pendio. Nei punti più umidi vi si sono aggiunte piccole felci. Così anche in inverno il verde accompagna gli stretti sentieri tortuosi, dove ci si vorrebbe fermare per avvicinare il naso alle pellicce di muschio fra cui serpeggia anche l’edera, per aspirarne il profumo e guardare quali pianticelle vi si sono installate e quali semi si sono nascosti aspettando una buona occasione per germogliare. Alcuni alberi come i lecci si sono potuti sviluppare fino a diventare voluminosi ultracentenari, altri sono diventati adulti senza poter crescere per mancanza di spazio. I tronchi sono spesso contorti, per aver inseguito la luce del sole negli spazi che si aprivano qua e là tra le chiome altrui. Molti sono cavi per le infiltrazioni d’acqua nei buchi prodotti per le cause più diverse, che col tempo fanno sbriciolare il legno più vecchio. I funghi, capaci di scomporre con le loro ife molte sostanze che gli alberi non potrebbero assimilare senza il loro aiuto, nei percorsi sotterranei intrecciati alle radici sono veri amici per loro. Ma ci sono anche quelli che, una volta installati su un tronco come fanno i legnosi a mensola, ne annunciano la fine prossima. Capita di trovare rami caduti e interi alberi sradicati ma ancora vivi, che continuano in una nuova posizione la propria esistenza. Qui il bosco viene lasciato al suo naturale evolversi, senza intervenire, perché è anche da questo che deriva il suo fascino antico.

Il castello al culmine della collina di Torre Alfina

 

I proprietari che si sono succeduti nel castello sul punto più alto della collina, hanno posseduto anche il bosco nel passato, fino a che nel 1880 il banchiere e conte Edoardo Cahen ne è diventato l’ultimo signore e ha voluto condividere il piacere di trascorrervi il maggior tempo possibile con gli amici che lo andavano a trovare. Con l’aiuto di architetti e paesaggisti ha fatto tracciare per questo dei sentieri e ha fatto innalzare muretti a secco per rendere più agevole il percorso, senza alterare il carattere del bosco. Solo nell’unico punto in piano aveva voluto una cappella neogotica come tomba di famiglia, ma che è rimasta solo sua.

I sessantuno ettari di quello che è stato dichiarato Monumento Naturale sono adesso di proprietà del Comune che vuole preservarlo da ogni danno, consentendone l’ingresso solo ai gruppi accompagnati da una guida.

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Transumanza delle api

by 16 maggio 2023

vecchio camion per la transumanza delle api – foto da Confagricoltura Pistoia

 

Ai tempi dell’antica Roma, la perfetta organizzazione nel lavoro e nella vita delle api era molto ammirata e, per appropriarsi del dolce cibo e della cera senza danneggiarle, le arnie che erano loro offerte, costruite con paglia o ramoscelli, avevano uno sportello posteriore per il prelievo del miele. Vedendole andare e tornare sicure anche da lontano, per poco che non piovesse e non facesse troppo freddo, gli apicoltori dell’impero che abitavano la valle del Po, avevano cominciato a farsi nomadi. Risalivano coi barconi il fiume al seguito delle fioriture, che dalla foce progredivano verso l’interno, man mano che la bella stagione avanzava. Così avevano sempre fatto anche gli egiziani lungo il Nilo, per aumentare la produzione e la varietà di miele.

La sera, quando tutte le api erano rientrate, le arnie artificiali erano caricate sulle imbarcazioni che nella notte si spostavano e, prima che sorgesse il sole, erano già installate nei prati dove i fiori stavano per aprire le corolle. La distanza rispetto al posto appena lasciato doveva essere superiore ai tre chilometri, altrimenti le bottinatrici vi sarebbero ritornate. Il clima umido e poco ventoso aiutava gli insetti ad adattarsi al paesaggio e ad iniziare nuove esplorazioni e raccolte. Apicoltori ed api compivano una transumanza simile a quella delle greggi di pecore. In autunno, scendevano di nuovo verso valle e spesso era dopo Mantova, a Melara, che si fermavano per fare la smielatura.

logo da Ambasciatoriapi.it con apicoltore nomade sloveno

 

Nel medioevo anche l’apicoltura era decaduta, come la coltivazione della vite e dell’olivo. Chi ancora la praticava, salvo in Puglia e Sicilia, lo faceva coi bugni primitivi, di tronchi d’albero, che con la loro forma costringevano all’uccisione delle api per poterne prendere il cibo. Qualche volta, come era successo a Catanzaro, gli insetti erano anche stati utilizzati come difesa, buttando i bugni ronzanti sul nemico, dall’alto delle mura cittadine.

All’inizio dell’ottocento, sono stati diversi apicoltori a realizzare arnie coi telai mobili, per raccogliere il miele di nuovo nel modo incruento, che ha consentito anche di far prosperare l’attività. Poi è ripreso il nomadismo stagionale, che a volte avveniva in treno o nei carri, dove gli alveari venivano sospesi o appoggiati su giacigli morbidi, per evitare urti e sobbalzi. Gli sloveni lo facevano anche portandoseli sulle spalle, come gerle, dalla Carnia alla Carinzia fino alle Alpi Giulie. Adesso, con la disponibilità di furgoni attrezzati, in tutt’Italia si pratica in modo più massiccio, a volte partendo a gennaio coi mandorli di Sicilia, per risalire verso nord dietro il tepore del sole. Altre volte, in una stessa regione si inizia dal fondovalle coi ciliegi e si sale verso i castagni e poi i rododendri. Oppure si passa la primavera in collina per i fiori di robinia e di sulla, poi si scende in estate in pianura per l’erba medica. Le vibrazioni del motore accesso durante il viaggio calma le api, che appena arrivano nella nuova destinazione, ricominciano i loro voli instancabili.

Articolo tratto dal mio libro Animali, favolose storie vere

Un articolo sui musei delle api lo trovate qui

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Galle di belle forme e colori

by 9 maggio 2023

galla di Andricus dentimitratus su quercia

 

Tutte le piante per riprodursi generano fiori o infiorescenze che poi si trasformano in frutti dalle forme più varie ma caratteristiche di ciascuna specie ed è anche attraverso di loro che possiamo riconoscere a che specie appartengono. Se però degli organismi che possono essere insetti ma anche batteri si insinuano nei tessuti vegetali, vediamo comparire quelli che possono sembrare frutti, ma sono invece galle. Anche loro hanno forme e colori caratteristici, che rivelano l’organismo a cui appartengono e sono a volte anche molto belle.

 

Galla di Diplolepis rosae

 

Si sviluppano attraverso le secrezioni dell’insetto madre o delle larve collocate al loro interno dove trovano protezione e nutrimento fino a che non sono in grado di uscire e fare vita autonoma, magari brevissima. Questi rifugi una volta abbandonati possono essere riutilizzati da altri organismi della stessa specie. Piante che spesso subiscono queste intrusioni sono le querce, i salici, i pioppi, a volte i tigli, gli olmi ma anche le rose.

 

Galle di Andricus caputmedusae su quercia

 

Galle molto comuni sono sfere dal diametro di quattro o cinque centimetri, di consistenza legnosa, che ospitano Andricus quercustozae. Curiose sono quelle che assomigliano a ricci di castagno ma con colori vari. Appartengono all’Andricus caputmedusae, che per le rose sono le Diplolepis rosae Forse le più belle sono quelle che sembrano stelle marine laccate di un rosso vivo di consistenza appiccicosa l’Andricus dentimitratus, presenti sulle querce roverelle, che contengono una sola larva di cinipide.

Per fortuna pare che le piante sopportino bene la presenza delle galle, che contengono molto tannino, la sostanza amara che serve loro da difesa chimica e che noi abbiamo utilizzato in passato per fare inchiostri e ottenere medicinali.

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La Torre Petrara di Sermoneta (LT)

by 3 maggio 2023

La torre Petrara

 

Fin dal XIII secolo la famiglia Caetani aveva avuto il suo castello a Sermoneta, nel punto in cui a trecento metri di altitudine, la collina termina la sua salita e si sono potute costruire con un certo agio case, palazzi e chiese. Ai suoi piedi, su un’altura ben più piccola nella località di Monticchio, venne costruita una torre di avvistamento molto semplice, che fino al ventesimo secolo non aveva subito danni. Quando però nel periodo fascista bonificarono le paludi lungo la costa tirrenica e si costruirono le nuove città di Latina, Aprilia, Sabaudia, Pomezia, si pensò di procurarsi le pietre necessarie prendendo il tufo e la calce della collinetta. Così, giorno per giorno, dopo aver abbattuto gli alberi e utilizzato il loro legname, consumarono la collina fino a lasciare solo quella parte su cui si reggeva la torre e accanto a lei un leccio.

 

Sermoneta

 

Più oltre non osavano andare, perché quella costruzione ormai inaccessibile aveva acquisito un’aura piena di fascino e di mistero e sarebbe stato un peccato farla sparire. Chi non ne conosceva la storia si chiedeva come l’avessero costruita e perché. Faceva pensare a quei monasteri greci sulle rocce chiamate Meteore, a torri in cui tenere prigioniero qualche insolito personaggio. Era dunque il caso di lasciarla così, per stupire i visitatori diretti a Sermoneta. Come nelle storie inventate, il bel borgo si può raggiungere prendendo una delle due strade che partono nello stesso punto ma in direzioni opposte: una è più larga e agevole da salire, l’altra è più corta ma anche più stretta e ripida. Lassù c’è ancora molto spazio per pensare a seguiti avvincenti.

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Pino cembro

by 26 aprile 2023

 

 

 

pino cembro monumentale di Lerosa (BL)

I cirmoli si arrampicano fin quasi sulla roccia, dove c’è ancora un po’ di terra, perché sono loro gli ultimi alberi della montagna, gli unici a condividere col pino mugo la resistenza al freddo dei duemilaquattrocento metri. Il pino cembro è dell’antica famiglia delle conifere, che affida al vento il polline destinato ai fiori femminili, perché si possano trasformare in frutti, cioè pigne. Per far trovare terreni nuovi alla sua discendenza ha preferito, però, affidarsi a solide ali e non lascia che i coni si aprano semplicemente col sole, per far uscire i semi. Confida nell’uccello chiamato nocciolaia, dal becco abilissimo nel rompere i gusci più duri, per liberarli e portarseli via, lasciandosene sfuggire sempre qualcuno che possa germogliare fra una roccia ed un pezzo di terra.

 

pigne di pino cembro con i pinoli visibili dove sono state tolte le scaglie

 

I piccoli di questo bell’uccello che si nutre di semi chiusi nei gusci duri,come si intuisce dal nome, restano più a lungo di altri con i loro genitori, proprio per imparare la difficile operazione di estrarre i pinoli. Si aiutano anche incastrando le pigne fra le rocce ed ecco perché molti cembri vi crescono sopra, dopo che un pinolo estratto è sfuggito all’abile becco incrociato. Nascerà in quel caso un nuovo pino cembro, dalle forti e profonde radici, che crescerà piano piano, magari fra gli arbusti e in compagnia degli amici larici e ben riconoscibile dai ciuffetti fatti di cinque lunghi aghi striati di bianco. Solo a quarant’anni si sentirà pronto per fiorire e riprodursi. Ha secoli di vita davanti a sé.

Il legno profumato è il preferito dagli scultori per opere che oltre alla bellezza, mantengano l’aroma per anni. Anche i falegnami, soprattutto in passato, lo utilizzavano per tappezzare, pavimentare e ammobiliare l’unico locale riscaldato nelle case di montagna, che si chiamava Stua. In abbondante segatura ci si può immergere come in un bagno per rimediare a tensioni muscolari e dolori reumatici.

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Quercia vallonea, fragno e le altre

by 18 aprile 2023

Quercia vallonea di Tricase (LE)

 

In Puglia si trova un tipo di quercia che in altre regioni non esiste: la vallonea. Oltre alla consueta bellezza e robustezza tipica della sua famiglia, lei ha ghiande enormi, con un cappuccio riccioluto che pare un oggetto di design. Le foglie, diversamente dalle querce italiane, hanno i margini a punte che ricordano gli agrifogli. Le sue antenate erano state probabilmente importate mille anni fa dalla Dalmazia, dove vivono abitualmente. Il nome deriva infatti dall’albanese Valona. Pare fosse avvenuto per averne le ghiande che, oltre ad essere mangiate dai maiali, erano utili anche per la concia delle pelli, fatta con i tannini che molti alberi contengono nella corteccia e nei frutti. Il tannino è una sostanza amara, utile anche per curare la pelle umana e, a seconda del tipo d’albero, serve per casi diversi. Dagli anni ‘70 questa quercia e la sorella che si trova a Corigliano (LE), sono protette dall’Unesco.

C’è un altra varietà, che si trova solo in questa regione ma è sempre di origine balcanica ed è quella chiamata fragno. Le ghiande sono più piccole, coi cappucci dai riccioli più ispidi della vallonea, più simili a quelli del cerro e con le foglie a punte come l’altra che, pur seccando, non cadono dai rami fino a primavera, quando spuntano quelle nuove. Per raggiungerla, nell’abitato di Corigliano, comune di Maglie (LE), prima di arrivare al centro girare a destra e, raggiunta una piazzetta con una bella palma nel mezzo, si vede sulla sinistra una stradina dove, subito sulla destra, protetta da muri e cancello, ma ben visibile, si trova la famosa quercia.

 

i tipici lobi della quercia roverella

 

In Piemonte a Novi ligure si trova un tipo di quercia, di cui un bell’esemplare è monumentale, chiamato “quercia virgiliana” dalle ghiande più dolci delle altre e dunque commestibili per gli umani, con cui in passato si è fatto il pane. Per questo un altro suo nome è “castagnola”. Ce n’è una monumentale anche nella contrada Selva di Gallignano ad Ancona. Con la parola generica “quercia” si intendono vari alberi strettamente imparentati, che in genere hanno ghiande come frutti e le foglie che perdono in inverno, a lobi di vario tipo. Ce ne sono, però, anche di sempreverdi, come il leccio e la sughera dalle piccole foglie di colore verde molto scuro e leggermente seghettate. Pur avendo tutte un legno robusto, hanno caratteristiche diverse. La sughera cresce solo dove il clima è caldo e asciutto e resiste bene al fuoco grazie alla sua spessa corteccia. Il leccio si adatta a condizioni meno estreme. Le altre querce, che prendono il nome di roverella per il genere più comune, farnia per quella che richiede più acqua delle altre, cerro quello più rustico, rovere quello dal legno più pregiato.

 

foglie di quercia rossa

 

Ci sono però querce di molti altri tipi nel resto del mondo e in Italia abbiamo importato dagli USA la quercia rossa, chiamata così per le sue gradi foglie con i lobi appuntiti, che in autunno diventano di un rosso intenso prima di cadere. Cresce molto più in fretta delle querce europee. Altra importata dall’America è quella delle paludi, che vive in luoghi umidi e nelle foglie, più strette, somiglia a quella rossa. Ciascuna delle due è rappresentata da un esemplare monumentale sul grande prato di fronte alla reggia di Monza.

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