I miei articoli

Pino cembro

by 26 Aprile 2023

 

 

 

pino cembro monumentale di Lerosa (BL)

I cirmoli si arrampicano fin quasi sulla roccia, dove c’è ancora un po’ di terra, perché sono loro gli ultimi alberi della montagna, gli unici a condividere col pino mugo la resistenza al freddo dei duemilaquattrocento metri. Il pino cembro è dell’antica famiglia delle conifere, che affida al vento il polline destinato ai fiori femminili, perché si possano trasformare in frutti, cioè pigne. Per far trovare terreni nuovi alla sua discendenza ha preferito, però, affidarsi a solide ali e non lascia che i coni si aprano semplicemente col sole, per far uscire i semi. Confida nell’uccello chiamato nocciolaia, dal becco abilissimo nel rompere i gusci più duri, per liberarli e portarseli via, lasciandosene sfuggire sempre qualcuno che possa germogliare fra una roccia ed un pezzo di terra.

 

pigne di pino cembro con i pinoli visibili dove sono state tolte le scaglie

 

I piccoli di questo bell’uccello che si nutre di semi chiusi nei gusci duri,come si intuisce dal nome, restano più a lungo di altri con i loro genitori, proprio per imparare la difficile operazione di estrarre i pinoli. Si aiutano anche incastrando le pigne fra le rocce ed ecco perché molti cembri vi crescono sopra, dopo che un pinolo estratto è sfuggito all’abile becco incrociato. Nascerà in quel caso un nuovo pino cembro, dalle forti e profonde radici, che crescerà piano piano, magari fra gli arbusti e in compagnia degli amici larici e ben riconoscibile dai ciuffetti fatti di cinque lunghi aghi striati di bianco. Solo a quarant’anni si sentirà pronto per fiorire e riprodursi. Ha secoli di vita davanti a sé.

Il legno profumato è il preferito dagli scultori per opere che oltre alla bellezza, mantengano l’aroma per anni. Anche i falegnami, soprattutto in passato, lo utilizzavano per tappezzare, pavimentare e ammobiliare l’unico locale riscaldato nelle case di montagna, che si chiamava Stua. In abbondante segatura ci si può immergere come in un bagno per rimediare a tensioni muscolari e dolori reumatici.

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Quercia vallonea, fragno e le altre

by 18 Aprile 2023

Quercia vallonea di Tricase (LE)

 

In Puglia si trova un tipo di quercia che in altre regioni non esiste: la vallonea. Oltre alla consueta bellezza e robustezza tipica della sua famiglia, lei ha ghiande enormi, con un cappuccio riccioluto che pare un oggetto di design. Le foglie, diversamente dalle querce italiane, hanno i margini a punte che ricordano gli agrifogli. Le sue antenate erano state probabilmente importate mille anni fa dalla Dalmazia, dove vivono abitualmente. Il nome deriva infatti dall’albanese Valona. Pare fosse avvenuto per averne le ghiande che, oltre ad essere mangiate dai maiali, erano utili anche per la concia delle pelli, fatta con i tannini che molti alberi contengono nella corteccia e nei frutti. Il tannino è una sostanza amara, utile anche per curare la pelle umana e, a seconda del tipo d’albero, serve per casi diversi. Dagli anni ‘70 questa quercia e la sorella che si trova a Corigliano (LE), sono protette dall’Unesco.

C’è un altra varietà, che si trova solo in questa regione ma è sempre di origine balcanica ed è quella chiamata fragno. Le ghiande sono più piccole, coi cappucci dai riccioli più ispidi della vallonea, più simili a quelli del cerro e con le foglie a punte come l’altra che, pur seccando, non cadono dai rami fino a primavera, quando spuntano quelle nuove. Per raggiungerla, nell’abitato di Corigliano, comune di Maglie (LE), prima di arrivare al centro girare a destra e, raggiunta una piazzetta con una bella palma nel mezzo, si vede sulla sinistra una stradina dove, subito sulla destra, protetta da muri e cancello, ma ben visibile, si trova la famosa quercia.

 

i tipici lobi della quercia roverella

 

In Piemonte a Novi ligure si trova un tipo di quercia, di cui un bell’esemplare è monumentale, chiamato “quercia virgiliana” dalle ghiande più dolci delle altre e dunque commestibili per gli umani, con cui in passato si è fatto il pane. Per questo un altro suo nome è “castagnola”. Ce n’è una monumentale anche nella contrada Selva di Gallignano ad Ancona. Con la parola generica “quercia” si intendono vari alberi strettamente imparentati, che in genere hanno ghiande come frutti e le foglie che perdono in inverno, a lobi di vario tipo. Ce ne sono, però, anche di sempreverdi, come il leccio e la sughera dalle piccole foglie di colore verde molto scuro e leggermente seghettate. Pur avendo tutte un legno robusto, hanno caratteristiche diverse. La sughera cresce solo dove il clima è caldo e asciutto e resiste bene al fuoco grazie alla sua spessa corteccia. Il leccio si adatta a condizioni meno estreme. Le altre querce, che prendono il nome di roverella per il genere più comune, farnia per quella che richiede più acqua delle altre, cerro quello più rustico, rovere quello dal legno più pregiato.

 

foglie di quercia rossa

 

Ci sono però querce di molti altri tipi nel resto del mondo e in Italia abbiamo importato dagli USA la quercia rossa, chiamata così per le sue gradi foglie con i lobi appuntiti, che in autunno diventano di un rosso intenso prima di cadere. Cresce molto più in fretta delle querce europee. Altra importata dall’America è quella delle paludi, che vive in luoghi umidi e nelle foglie, più strette, somiglia a quella rossa. Ciascuna delle due è rappresentata da un esemplare monumentale sul grande prato di fronte alla reggia di Monza.

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La necessità del riconoscimento

by 12 Aprile 2023

 

Quante volte vorremmo confidare a qualcuno dalla mentalità aperta un aspetto importante della nostra vita per ascoltare cosa ne pensa e conoscere le sue intelligenti riflessioni al riguardo? Da alcuni mesi la domenica mattina su Radio 3 RAI c’è il programma “Zarathustra – tracce per non perdersi nella nebbia”, in cui si può fare. E’ ideato e condotto dal giornalista Pietro del Soldà che da anni dal lunedì al venerdì mattina tratta con vari ospiti a “Tutta la città ne parla “ gli argomenti di attualità sollecitati dalle telefonate degli ascoltatori alla rassegna stampa quotidiana. Invece per quest’altra trasmissione gli affezionati di Radio 3 scrivono alla redazione facendo conoscere qualcosa di poco comune ma di interesse generale, che riguarda la loro vita e la loro professione. Lo fanno come se si confidassero con una persona amica, ma in questo caso sono Pietro del Soldà e Ilaria Gaspari a dire cosa pensano, man mano che il protagonista del giorno procede con la sua narrazione. A beneficiarne, però, siamo anche noi che seguiamo un tratto importante della vita altrui e possiamo così comprenderla un poco, oltre a conoscere modi di vivere e professioni insolite.

C’è chi scrive le storie delle famiglie per chi ne vuole fare dono ad uno dei suoi membri, chi racconta la propria convivenza con una persona malata di mente, chi spiega come ha creato un lavoro nuovo.

Queste narrazioni dimostrano anche quanto le persone vogliano essere riconosciute, quanto desiderino che sia data importanza a ciò che vivono, soprattutto se è qualcosa che per loro ha grande valore. Nelle religioni ci sono i riti per alcuni passaggi importanti della vita, (per i cristiani il battesimo, la cresima, la comunione, il matrimonio) a cui prende parte la comunità durante una cerimonia solenne e i festeggiamenti, si indossa un abito speciale e si è al centro dell’attenzione. Quando ci si crede davvero e non si fa solo per tradizione, per volere altrui o per ipocrisia, questo riconoscimento appaga e si imprime nel profondo, oltre a creare un legame con i partecipanti. Per tutti troppo spesso c’è l’appiattimento e addirittura il vedere sminuito ciò che si vorrebbe vedere riconosciuto, senza magari esserne coscienti, ma sentendo il disagio della sua mancanza. Ammettere come legittimo questo bisogno ed esprimerlo è un primo passo per evitare di agire in modo improprio, con risultati frustranti.

Il programma “Zarathustra” ci fa riflettere sulla questione e se abbiamo perso le puntate trasmesse finora, si possono riascoltare con l’app Raiplay sound.

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L’ufficiale e la spia

by 4 Aprile 2023

Il film di Roman Polanski del 2019 tratta la storia vera e notissima del caso Dreyfus accaduto in Francia nel 1894, quando nell’esercito francese era stato accusato, ingiustamente degradato e condannato all’esilio sulla famigerata Isola del Diavolo nella Guiana francese, l’ufficiale Alfred Dreyfus. Senza vere prove ma sicuri pregiudizi verso gli ebrei come lui, gli si erano accaniti contro, però uno degli ufficiali che aveva avuto una parte marginale nell’incriminazione, aveva poi trovato documenti inconfutabili della sua innocenza. Aveva subito informato i generali che, invece di correggere la tremenda ingiustizia e perseguire il vero colpevole, avevano preferito insabbiare tutto per non ammettere di avere sbagliato. Lo scrittore Emile Zola aveva pubblicato sui giornali la sua accusa di tale crimine, ma era stato processato e condannato ad un anno di prigione come diffamatore. Ormai però la verità aveva raggiunto molti disposti a crederla. Questo caso è uno dei tanti in cui le autorità che dovrebbero far trionfare la giustizia, la negano con la scusa di non voler screditare l’istituzione di cui sono responsabili. Affermano che il danno subito da una o anche più persone sia poca cosa in confronto alla perdita di fiducia verso una pubblica istituzione da parte delle masse. In realtà è per non voler “perdere la faccia” ammettendo di avere sbagliato. In tanti sono sempre disposti ad accusare ma mai capaci di ammettere i propri errori. Il gesto richiede molto coraggio, ma i pregiudizi si basano sulla paura.

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Pietragalla dei palmenti (PZ)

by 29 Marzo 2023

palmenti di Pietragalla (PZ)

 

Tutt’a un tratto, dalla comoda strada diritta o quasi fra le colline, venendo da Gravina di Puglia, si sale con pendenze che a momenti sono vertiginose. In certi punti la carreggiata sembra divincolarsi e si torce, fino a che si raggiungono i circa ottocento metri di altitudine di Pietragalla, in provincia di Potenza. Le prime costruzioni che ci si trova davanti sono i palmenti. Se dietro di loro, poco più in alto non ci fossero dei condomini e le case di mezza montagna, si avrebbe l’illusione di trovarsi in un antico villaggio dei Paesi nordici, con le abitazioni dai muri di torba e i tetti verdi dell’erba che cresce rigogliosa sopra un materasso di terra, isolandole dal freddo. Ricordano anche quelle che costruisce oltralpe chi vuole vivere in maggiore sintonia con l’ambiente naturale e vengono dette “da hobbit”, i personaggi creati dalla fantasia di Tolkien che vivono in casette simili a queste. Forse chi viene qui lo fa anche per lasciar fare alla propria mente il primo passo verso quel tipo di abitazione che ancora non osa realizzare. Ma i palmenti di Pietragalla sono troppo piccoli per essere case. Sono stati costruiti per fare il vino, dopo aver vendemmiato nei vigneti che si trovano più in basso.

 

vasche interne dei palmenti

 

Si chiamano palmenti, dalla parola latina “paumentum” che indica l’atto del pigiare, in una sola vasca dentro i più piccoli, in più vasche dentro quelli più grandi, dove lavorano due o più famiglie. Scavati nel tufo, dove gli invasi più profondi accolgono il mosto per la fermentazione, parti delle pareti e il tetto, che spesso è una volta a botte, sono fatti con le pietre cementate fra loro. Sulla terra con cui vengono ricoperti cresce l’erba fra cui a primavera fiorisce il tarassaco e sui bordi più asciutti si spande il rosa del sedum, dalle foglioline che sembrano chicchi di riso. Solo qui a Pietragalla, non si sa bene quando, ma soprattutto da metà ottocento, facendo tesoro delle risorse locali si sono costruiti più di duecento palmenti tutti rivolti a sud, perché il calore del sole, immagazzinato e restituito dalle pietre, favorisse la qualità della bevanda che dà il buonumore ancora prima di sorseggiarla, quando la gente lavora insieme e insieme festeggia la conclusione dei propri sforzi. Un po’ alla volta, però, sono stati abbandonati per utilizzare mezzi e luoghi più moderni. Solo una famiglia ne fa ancora uso e si adopera perché i numerosi visitatori possano apprezzare questo che è diventato un parco di architettura rupestre, di cui qui possono essere orgogliosi.

Altri articoli sulle architetture rurali di qualità si trovano nella stessa rubrica Italia inconsueta

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Rame: ogni colore una virtù

by 19 Marzo 2023

Alambicco in rame per distillare erbe

 

È di un bel rosa brillante appena viene prodotto, si riveste di una patina verde quando resta esposto alle intemperie, diventa un cristallo di sale blu se trattato con acido solforico, si fa bianco se lo si polverizza e gli si toglie l’acqua. Una simile variabilità di colori aumenta il fascino del rame, un metallo fra i più duttili e fra i migliori conduttori di calore ed elettricità. Ecco perché è stato tanto usato per farne fili elettrici e pentole predilette dai bravi cuochi. Impedisce la formazione dei batteri e dei funghi e per questo se ne sono prodotti tubi dell’acqua e lo si è reso adatto ad irrorare le viti per proteggerle dai parassiti, in forma di solfato blu, che a contatto con l’aria si fa verde. Il solfato di rame, adesso sostituito dall’ossicloruro, è usato nei fuochi d’artificio per ottenere il colore azzurro.

Il rame è uno dei metalli più usati fin dall’antichità, quando si estraeva a Cipro, da cui gli viene il nome latino cuprum ed il simbolo Cu. La sua origine, il colore rosa e la duttilità lo hanno associato alla dea Afrodite. Fuso con lo stagno e altri componenti diventa bronzo, di cui sono fatte molte statue e le campane, ma ancora prima le armi, gli utensili, le monete, tanto che l’epoca tra il quarto ed il terzo millennio a.C. è stata chiamata età del bronzo.

 

rame ossidato

 

La patina verde, provocata dall’anidride carbonica sul rame esposto all’aria, è carbonato di rame, che protegge il metallo dalla corrosione. Per questo se ne fanno grondaie e tetti. L’ossido di rame nella pasta di vetro con cui si realizza la bigiotteria, dà un colore turchese. Il turchese come pietra da gioielleria contiene rame, così come avviene per l’azzurrite, chiamata anche malachite che, macinata, viene usata come pigmento per pittori.

L’estrazione del rame da pietre diverse, come la calcopirite, un tempo avveniva con procedimenti inquinanti e con grande consumo energetico. Oggi sono certi batteri a compiere l’operazione, in modo molto più sostenibile (leggere qui). Si trova soprattutto nelle rocce basaltiche, quindi di origine vulcanica.

Articolo tratto dal mio libro ACQUA, ARIA, TERRA E FUOCO

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